Lucy Woodward "An Evening with"
Quello di Lucy Woodward è il clamoroso esempio di una situazione paradossale
tutt’altro che rara: ovvero, che ad essere troppo bravi si rischia di non conquistare
altrettanta popolarità.
Di possedere un talento musicale, soprattutto vocale, fuori dal comune, Lucy
Woodward aveva dato prova fin da piccola, in ciò forse agevolata dall’essere
venuta al mondo in una famiglia dedita alla musica: il padre Kerry, inglese,
compositore e direttore di coro, la madre Julie, statunitense, musicologa,
insegnate, cantante lirica e finanche ballerina di danza del ventre.
A stimolarne le doti, oltre al favorevole ambito familiare, avrebbe dato ulteriore
contributo l’avere assorbito durante i primi anni dell’infanzia climi culturali assai
diversi: nasce, infatti, a Londra ma non vi rimane a lungo perché presto si
trasferisce ad Amsterdam allorché il padre viene nominato direttore musicale del
prestigioso Netherlands Chamber Choir; dopo alcuni anni, a seguito del divorzio
dei genitori, segue la madre a New York, trovando nella Grande Mela l’ambiente
ideale a sviluppare, perfezionare e dare sbocco professionale alla passione innata,
quella del canto.
La gavetta è abbastanza dura (comincia con un gruppo che suona ai matrimoni
cinque giorni alla settimana) ma, oltre a regalarle i primi sprazzi di notorietà col
pubblico, serve ad accresce la sua versatilità ed a costruirle attorno un alone di
notevole credibilità presso il giro dei musicisti che incominciano, sempre più
numerosi, a richiederla come corista nei rispettivi tour e incisioni discografiche.
Alle eccellenti doti vocali Lucy unisce, così, un invidiabile ed eclettico bagaglio
di esperienze che tocca quasi ogni ambito sonoro, dal pop al jazz, dal rock al
rhythm’n’blues, dal soul alla fusion, dalla musica classica e mediorientale
(apprese dalla madre) a quella yiddish (insegnatale dalla nonna) e molto altro
ancora. Inoltre, sa suonare pianoforte e flauto (strumenti praticati fin da bambina)
e se la cava più che bene a comporre canzoni (la prima l’aveva scritta ad appena
undici anni).
In breve, Lucy Woodward diventa il segreto meglio custodito della musica anglo-
americana e alla fine è inevitabile che del suo versatile talento (non solo canoro
ma anche di capacità di scrivere belle canzoni) se ne accorgano anche big e gruppi
di caratura mondiale come i Pink Martini, Barbra Streisand, Carole King, Rod
[Digitare il testo]
Stewart, Celine Dion, Joe Cocker, Chaka Khan, Randy Jackson, Stacie Orrico,
Nikka Costa e gli Snarky Puppy (la jazz-fusion band più cool degli anni Duemila).
Lucy diventa in breve la vocalist più corteggiata e richiesta sia negli Usa che in
Europa praticamente in ogni genere musicale ed è letteralmente assediata dalle
richieste professionali. Inizia così un lungo periodo che di sicuro è folgorante per
qualità, quantità, diversità e brillantezza di esperienze ma che, al contempo, pone
la Woodward sempre all’ombra di nomi più famosi del suo e, inoltre, l’attività ha
un ritmo così intenso e frenetico da distrarre la giovane vocalist da progetti
autonomi. In più, come la stessa artista ha spesso confessato nelle interviste, «non
desideravo affatto diventare un pop-starlet; ciò che mi interessava realmente era
fare continuamente nuove esperienze musicali, vivere immersa nella musica».
E’ solo nel 2003 che Lucy Woodward, finalmente, si decide a dare alle stampe
l’album d’esordio, “While you can”. Il confortante successo di critica e pubblico
non la distoglie dalle molte collaborazioni internazionali in corso ma di sicuro la
induce a concedere più attenzione all’attività solistica. La seconda tappa
discografica giunge dopo quattro anni con “Lucy Woodward is hot and bothered”
(titolo malizioso che la definisce “calda ed eccitata”) cui seguono “Hooked!”,
terzo disco del 2010 pubblicato dalla prestigiosa etichetta Verve, e “Til they bang
on the door” del 2016.
Che volesse o no diventare una star, Lucy Woodward in questi due decenni del
nuovo secolo si afferma come una delle più brave, versatili e complete cantanti
del panorama internazionale oltreché come artista sempre interessata a nuove
esperienze: l’attuale dimensione artistica dell’esuberante vocalist, infatti, la vede
impegnata sia nel fortunato sodalizio col chitarrista americano Charlie Hunter
(con cui ha inciso l’album “Music! Music! Music!”) sia come leader di propri
progetti sia come ospite speciale accanto a big con cui continua a collaborare, tra
cui, appunto, Rod Stewart, Pink Martini e Snarky Puppy.
Insomma un’artista in costante e magnifica evoluzione la cui musica è un
affascinante cocktail di rhythm’n’blues dal groove marcato, di inflessioni jazz, di
raffinato soul, di morbido blues, di funk pulsante e di spumeggiante pop vintage.
Da un’artista così eclettica, per di più affiancata da una big band tanto prestigiosa,
non ci si poteva che attendere un programma decisamente speciale e vario che
zigzaga deliziosamente tra successi al tempo condivisi da Sarah Vaughan, Peggy
Lee ed Ella Fitzgerald (“Black coffee”), cavalli di battaglia di Ruth Brown (“I
don’t know”), torch song di Mel Tormé (“Born to be blue”), celebri frammenti di
musical di Cole Porter (“I get a kick out of you”), ricordi di storiche colonne
sonore (“I’m gonna go fishin’” di Duke Ellington, dal film “Anatomia di un
delitto”), vecchi successi rinati a nuova vita (“It’s oh so quiet” scritta nel 1951 da
Betty Hutton ma in tempi recenti riverniciata a nuovo da Björk), monumenti della tradizione blues (“Spoonful”, portato al successo da Howlin’ Wolf) ed anche
parecchie canzoni scritte dalla stessa Woodward e tratte dai suoi diversi album.
Insomma, un affresco sonoro in grado di raccontare un secolo di grande musica.
Quello di Lucy Woodward è il clamoroso esempio di una situazione paradossale
tutt’altro che rara: ovvero, che ad essere troppo bravi si rischia di non conquistare
altrettanta popolarità.
Di possedere un talento musicale, soprattutto vocale, fuori dal comune, Lucy
Woodward aveva dato prova fin da piccola, in ciò forse agevolata dall’essere
venuta al mondo in una famiglia dedita alla musica: il padre Kerry, inglese,
compositore e direttore di coro, la madre Julie, statunitense, musicologa,
insegnate, cantante lirica e finanche ballerina di danza del ventre.
A stimolarne le doti, oltre al favorevole ambito familiare, avrebbe dato ulteriore
contributo l’avere assorbito durante i primi anni dell’infanzia climi culturali assai
diversi: nasce, infatti, a Londra ma non vi rimane a lungo perché presto si
trasferisce ad Amsterdam allorché il padre viene nominato direttore musicale del
prestigioso Netherlands Chamber Choir; dopo alcuni anni, a seguito del divorzio
dei genitori, segue la madre a New York, trovando nella Grande Mela l’ambiente
ideale a sviluppare, perfezionare e dare sbocco professionale alla passione innata,
quella del canto.
La gavetta è abbastanza dura (comincia con un gruppo che suona ai matrimoni
cinque giorni alla settimana) ma, oltre a regalarle i primi sprazzi di notorietà col
pubblico, serve ad accresce la sua versatilità ed a costruirle attorno un alone di
notevole credibilità presso il giro dei musicisti che incominciano, sempre più
numerosi, a richiederla come corista nei rispettivi tour e incisioni discografiche.
Alle eccellenti doti vocali Lucy unisce, così, un invidiabile ed eclettico bagaglio
di esperienze che tocca quasi ogni ambito sonoro, dal pop al jazz, dal rock al
rhythm’n’blues, dal soul alla fusion, dalla musica classica e mediorientale
(apprese dalla madre) a quella yiddish (insegnatale dalla nonna) e molto altro
ancora. Inoltre, sa suonare pianoforte e flauto (strumenti praticati fin da bambina)
e se la cava più che bene a comporre canzoni (la prima l’aveva scritta ad appena
undici anni).
In breve, Lucy Woodward diventa il segreto meglio custodito della musica anglo-
americana e alla fine è inevitabile che del suo versatile talento (non solo canoro
ma anche di capacità di scrivere belle canzoni) se ne accorgano anche big e gruppi
di caratura mondiale come i Pink Martini, Barbra Streisand, Carole King, Rod
[Digitare il testo]
Stewart, Celine Dion, Joe Cocker, Chaka Khan, Randy Jackson, Stacie Orrico,
Nikka Costa e gli Snarky Puppy (la jazz-fusion band più cool degli anni Duemila).
Lucy diventa in breve la vocalist più corteggiata e richiesta sia negli Usa che in
Europa praticamente in ogni genere musicale ed è letteralmente assediata dalle
richieste professionali. Inizia così un lungo periodo che di sicuro è folgorante per
qualità, quantità, diversità e brillantezza di esperienze ma che, al contempo, pone
la Woodward sempre all’ombra di nomi più famosi del suo e, inoltre, l’attività ha
un ritmo così intenso e frenetico da distrarre la giovane vocalist da progetti
autonomi. In più, come la stessa artista ha spesso confessato nelle interviste, «non
desideravo affatto diventare un pop-starlet; ciò che mi interessava realmente era
fare continuamente nuove esperienze musicali, vivere immersa nella musica».
E’ solo nel 2003 che Lucy Woodward, finalmente, si decide a dare alle stampe
l’album d’esordio, “While you can”. Il confortante successo di critica e pubblico
non la distoglie dalle molte collaborazioni internazionali in corso ma di sicuro la
induce a concedere più attenzione all’attività solistica. La seconda tappa
discografica giunge dopo quattro anni con “Lucy Woodward is hot and bothered”
(titolo malizioso che la definisce “calda ed eccitata”) cui seguono “Hooked!”,
terzo disco del 2010 pubblicato dalla prestigiosa etichetta Verve, e “Til they bang
on the door” del 2016.
Che volesse o no diventare una star, Lucy Woodward in questi due decenni del
nuovo secolo si afferma come una delle più brave, versatili e complete cantanti
del panorama internazionale oltreché come artista sempre interessata a nuove
esperienze: l’attuale dimensione artistica dell’esuberante vocalist, infatti, la vede
impegnata sia nel fortunato sodalizio col chitarrista americano Charlie Hunter
(con cui ha inciso l’album “Music! Music! Music!”) sia come leader di propri
progetti sia come ospite speciale accanto a big con cui continua a collaborare, tra
cui, appunto, Rod Stewart, Pink Martini e Snarky Puppy.
Insomma un’artista in costante e magnifica evoluzione la cui musica è un
affascinante cocktail di rhythm’n’blues dal groove marcato, di inflessioni jazz, di
raffinato soul, di morbido blues, di funk pulsante e di spumeggiante pop vintage.
Da un’artista così eclettica, per di più affiancata da una big band tanto prestigiosa,
non ci si poteva che attendere un programma decisamente speciale e vario che
zigzaga deliziosamente tra successi al tempo condivisi da Sarah Vaughan, Peggy
Lee ed Ella Fitzgerald (“Black coffee”), cavalli di battaglia di Ruth Brown (“I
don’t know”), torch song di Mel Tormé (“Born to be blue”), celebri frammenti di
musical di Cole Porter (“I get a kick out of you”), ricordi di storiche colonne
sonore (“I’m gonna go fishin’” di Duke Ellington, dal film “Anatomia di un
delitto”), vecchi successi rinati a nuova vita (“It’s oh so quiet” scritta nel 1951 da
Betty Hutton ma in tempi recenti riverniciata a nuovo da Björk), monumenti della tradizione blues (“Spoonful”, portato al successo da Howlin’ Wolf) ed anche
parecchie canzoni scritte dalla stessa Woodward e tratte dai suoi diversi album.
Insomma, un affresco sonoro in grado di raccontare un secolo di grande musica.