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The Robin Gals "Se potessi avere, mille lire al mese"
Con quei contenuti innovativi, libertari, pregni di creatività e fortemente assertivi
dell’uguaglianza delle culture e del valore delle loro diversità, il jazz è stato
sempre un linguaggio di nicchia, un’espressione artistica di bruciante vitalità e
mutevolezza, una sorta di “avanguardia in progress” che rielabora di continuo la
propria tradizione per trarne visioni di futuro. Inevitabile, dunque, che a onta di
uno spessore artistico e culturale conclamato il jazz abbia sempre patito una
diffusione incomparabilmente inferiore a quella della popular music, del rock o di
altri linguaggi e altrettanto inevitabile che i suoi riscontri di mercato, sia come
affluenza di pubblico ai concerti sia come vendite discografiche, siano stati
altrettanto modesti (davvero rari i dischi di jazz che abbiano venduto più di un
milione di copie).
C’è stato un momento, però, in cui il jazz, nell’arco di una storia lunga ormai ben
più di un secolo, da linguaggio minoritario si è trasformato per breve tempo
davvero in popular music, ovvero in musica di larga diffusione, popolarità e
consumo, quella trasmessa da ogni emittente radiofonica, quella suonata in tutte le
sale da ballo e nei juke box, quella di cui tutti corrono ad acquistare i dischi per
ascoltarli a casa da soli o con gli amici. Questo momento magico ma effimero
coincide con gli anni della Swing Era americana (grosso modo dall’inizio degli
anni Trenta a buona parte dei Quaranta) e costituisce un’impennata che consente
al jazz di andare oltre la tradizione di New Orleans, di Chicago e del dixieland,
prima che questa fase aurea venga a sua volta sopravanzata dalla rivoluzione del
be bop.
Dopo il devastante crollo finanziario di Wall Street (ottobre 1929) che per diversi
anni (quelli della “Grande Depressione”) mise in ginocchio l’intera società
americana, la gente voleva dimenticare, aveva bisogno di aggrapparsi
all’ottimismo e tornare a sperare in un futuro migliore: lo Swing fu la risposta
ideale a questi aneliti e le scintillanti big band, le ballroom sfavillanti di lusso e
soprattutto le canzoni così ricche di melodia e ritmo e così deliziosamente
ballabili ne costituirono la perfetta colonna sonora.
Ecco, il trio vocale femminile The Robin Gals si rifà proprio a questo pezzo di
grande storia del jazz ma nel metterlo in scena non dimentica che quella dello
Swing statunitense fu un’ondata capace di superare gli oceani e riversarsi in tutto
il mondo, Italia compresa. In fondo era come un ritorno a casa perché alla nascita

[Digitare il testo]
del jazz avevano dato un contributo fondamentale anche le migliaia di emigrati
italiani che nell’Ottocento si erano avventurati nel Nuovo Mondo. L’idea delle
Robin Gals è riprende lo spirito originario dello Swing e legarlo alla propensione
melodica della canzone italiana della prima metà del Novecento, sostituendo ai
suoni strumentali di una big band i vorticosi e spumeggianti intrecci delle loro
voci (due soprani ed un contralto) sostenute dalle note del pianista e arrangiatore
Paolo Volante.
Le Robin Gals sono anche conosciute come "le ragazze del juke box" e questo in
virtù di un repertorio davvero sterminato che accomuna nel medesimo clima
swing i grandi classici del songbook americano, le canzoni italiane degli anni
Trenta e Quaranta fino a risalire a tempi assai più recenti.
Il loro spettacolo è una girandola di allegria, sentimenti e fantasia che ruota con
ritmo incalzante tra aneddoti, storie avvincenti, gag irresistibili e stuzzicanti
numeri coreografici (le tre cantanti sono brave anche nella danza). La scaletta
delle canzoni riserva sempre sorprese perché può guizzare tra “Chattanooga-Cho-
Cho” di Glenn Miller e “Lemon Tree” dei Fool’s Garden, tra la storica “Bésame
mucho” e “Moon river” (scritta da Henry Mancini per il film “Colazione da
Tiffany”), tra “Wake me up before you go-go” dei Wham! e “Fly me to the moon”
resa immortale da Frank Sinatra, tra Nat King Cole e il Trio Lescano, tra i Queen
e Pippo Barzizza, tra Billy Joel e Natalino Otto, tra Cindy Lauper e Gilberto
Mazzi che nel 1939 portò al successo, appunto, “Mille lire al mese”.
Canzoni a volte innocenti a volte maliziose, a volte romantiche a volte scanzonate
ma sempre segnate da uno swing spumeggiante che ci riporta con nostalgia e
tenerezza a ricordi ed emozioni da custodire gelosamente.
Con quei contenuti innovativi, libertari, pregni di creatività e fortemente assertivi
dell’uguaglianza delle culture e del valore delle loro diversità, il jazz è stato
sempre un linguaggio di nicchia, un’espressione artistica di bruciante vitalità e
mutevolezza, una sorta di “avanguardia in progress” che rielabora di continuo la
propria tradizione per trarne visioni di futuro. Inevitabile, dunque, che a onta di
uno spessore artistico e culturale conclamato il jazz abbia sempre patito una
diffusione incomparabilmente inferiore a quella della popular music, del rock o di
altri linguaggi e altrettanto inevitabile che i suoi riscontri di mercato, sia come
affluenza di pubblico ai concerti sia come vendite discografiche, siano stati
altrettanto modesti (davvero rari i dischi di jazz che abbiano venduto più di un
milione di copie).
C’è stato un momento, però, in cui il jazz, nell’arco di una storia lunga ormai ben
più di un secolo, da linguaggio minoritario si è trasformato per breve tempo
davvero in popular music, ovvero in musica di larga diffusione, popolarità e
consumo, quella trasmessa da ogni emittente radiofonica, quella suonata in tutte le
sale da ballo e nei juke box, quella di cui tutti corrono ad acquistare i dischi per
ascoltarli a casa da soli o con gli amici. Questo momento magico ma effimero
coincide con gli anni della Swing Era americana (grosso modo dall’inizio degli
anni Trenta a buona parte dei Quaranta) e costituisce un’impennata che consente
al jazz di andare oltre la tradizione di New Orleans, di Chicago e del dixieland,
prima che questa fase aurea venga a sua volta sopravanzata dalla rivoluzione del
be bop.
Dopo il devastante crollo finanziario di Wall Street (ottobre 1929) che per diversi
anni (quelli della “Grande Depressione”) mise in ginocchio l’intera società
americana, la gente voleva dimenticare, aveva bisogno di aggrapparsi
all’ottimismo e tornare a sperare in un futuro migliore: lo Swing fu la risposta
ideale a questi aneliti e le scintillanti big band, le ballroom sfavillanti di lusso e
soprattutto le canzoni così ricche di melodia e ritmo e così deliziosamente
ballabili ne costituirono la perfetta colonna sonora.
Ecco, il trio vocale femminile The Robin Gals si rifà proprio a questo pezzo di
grande storia del jazz ma nel metterlo in scena non dimentica che quella dello
Swing statunitense fu un’ondata capace di superare gli oceani e riversarsi in tutto
il mondo, Italia compresa. In fondo era come un ritorno a casa perché alla nascita

[Digitare il testo]
del jazz avevano dato un contributo fondamentale anche le migliaia di emigrati
italiani che nell’Ottocento si erano avventurati nel Nuovo Mondo. L’idea delle
Robin Gals è riprende lo spirito originario dello Swing e legarlo alla propensione
melodica della canzone italiana della prima metà del Novecento, sostituendo ai
suoni strumentali di una big band i vorticosi e spumeggianti intrecci delle loro
voci (due soprani ed un contralto) sostenute dalle note del pianista e arrangiatore
Paolo Volante.
Le Robin Gals sono anche conosciute come "le ragazze del juke box" e questo in
virtù di un repertorio davvero sterminato che accomuna nel medesimo clima
swing i grandi classici del songbook americano, le canzoni italiane degli anni
Trenta e Quaranta fino a risalire a tempi assai più recenti.
Il loro spettacolo è una girandola di allegria, sentimenti e fantasia che ruota con
ritmo incalzante tra aneddoti, storie avvincenti, gag irresistibili e stuzzicanti
numeri coreografici (le tre cantanti sono brave anche nella danza). La scaletta
delle canzoni riserva sempre sorprese perché può guizzare tra “Chattanooga-Cho-
Cho” di Glenn Miller e “Lemon Tree” dei Fool’s Garden, tra la storica “Bésame
mucho” e “Moon river” (scritta da Henry Mancini per il film “Colazione da
Tiffany”), tra “Wake me up before you go-go” dei Wham! e “Fly me to the moon”
resa immortale da Frank Sinatra, tra Nat King Cole e il Trio Lescano, tra i Queen
e Pippo Barzizza, tra Billy Joel e Natalino Otto, tra Cindy Lauper e Gilberto
Mazzi che nel 1939 portò al successo, appunto, “Mille lire al mese”.
Canzoni a volte innocenti a volte maliziose, a volte romantiche a volte scanzonate
ma sempre segnate da uno swing spumeggiante che ci riporta con nostalgia e
tenerezza a ricordi ed emozioni da custodire gelosamente.
Chiesa dello Spasimo Via dello Spasimo 15
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